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angolo letterario
TO ROMEWITH LOVE
Di Antonella Squillacioti
C
ontinua l’omaggio di Woody Allen alle più
belle Capitali europee. Questa volta il biz-
zarro regista americano si concentra su
Roma, la Città Eterna, e sugli Italiani, principal-
mente Capitolini, raccontando come le vite e le
stranezze di alcuni di loro si intreccino con quel-
le di noti personaggi stranieri.
Così un famoso architetto americano (Alec Bal-
dwin) diventa spirito guida e voce della coscien-
za di uno studente di architettura (Jesse Eisen-
berg) che sta per prendere una sbandata per
l’amica della sua fidanzata (Ellen Page).
Un produttore artistico in pensione (Woody Al-
len) porta al successo il proprio consuocero con-
sentendogli di esibirsi come cantante lirico con
una splendida voce che viene fuori solo sotto la
doccia, tanto nel bagno di casa propria, quanto
sui palcoscenici dei teatri.
Gli sposini di provincia (Alessandro Tibe-
ri e Alessandra Mastronardi) appena arrivati
a Roma per inseguire sogni di gloria perdono
l’orientamento, sia geografico che mentale, e si
lasciano tentare dalle gioie dell’infedeltà coniu-
gale per poi decidere di tornare alla semplice
vita di sempre.
Un uomo qualsiasi dalla vita più che normale
(Roberto Benigni) esce un giorno di casa sco-
prendo di essere, senza motivo alcuno, diven-
tato famoso e perseguitato dai paparazzi.
Concordano pubblico e critica nel riconoscere
gravi difetti al film. Il primo fra tutti è la banali-
tà delle storie che delude profondamente i fan
di Woody Allen. Evidente anche il cattivo dop-
piaggio che rende poco convincenti quasi tut-
ti i personaggi stranieri. Forzati alcuni finali sep-
pur tipici della commedia all’italiana. C’è persino
chi ha paragonato“To RomeWith Love”ad un fil-
metto degno di un terzo fratello Vanzina.
Tuttavia, mi sento di spezzare una lancia a favore
di una pellicola che non può essere vista come
un banale film divertente. Woody Allen mette
nero su bianco la sua visione di Roma, dell’Ita-
lia e dell’italianità. Alla bellezza monumentale
e paesaggistica di Roma si contrappone un po-
polo, quello italiano, che, seppure ormai libera-
to dallo stereotipo di pizza e mandolino, vive
comunque ancora con leggerezza e semplicità.
Non a caso la scelta di attori che rappresentano
appieno il Bel Paese, primo fra tutti Roberto Be-
nigni che, da semplice cittadino si trasforma, al-
la fine della storia, nella macchietta isterica che
tutti noi conosciamo. E, oltre ai già citati attori,
ricordiamo Antonio Albanese, Riccardo Scamar-
cio, Penelope Cruz e Ornella Muti.
Il resto poi (situazioni surreali, paradossi, stra-
vaganti stratagemmi cinematografici) va co-
munque inquadrato in un contesto al quale do-
vremmo essere abituati se conosciamo il regista
americano di “Match Point”, “Scoop” e “Manhat-
tan”, solo per citarne alcuni.
E neanche potevano mancare tutte le manie, i
tic, le stranezze che lo stesso regista concentra
ed interpreta nel suo personaggio profonda-
mente autobiografico.
Non stupiamoci, quindi, se il film non ci ritrae
come vorremmo. Woody Allen vede Roma come
un capolavoro di arte e natura dove tutto può
succedere, e vede gli Italiani come strani perso-
naggi capaci di qualsiasi colpo di testa. Come
dargli torto?
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‘’Le intermittenze del cuore’’
L’autore del libro qui commentato
è un noto psichiatra, Eugenio
Borgna, che affronta con
sensibilità il tema della sofferenza
dell’anima e spiega come la cura
farmacologica della depressione
debba essere affiancata da un
approccio psicologico ‘ricco’,
umano ed empatico. Per capire
chi soffre non basta la medicina,
serve anche conoscere l’universo
doloroso di un Dostoevskij
o la poesia della Plath, per citare
qualche esempio dal libro
Di Alessandro Sementilli
“L
a lacrima dice proprio ciò che non si
racconta, ciò che ancora non si dice.
In un’eloquenza silenziosa, la lacrima
si enuncia scomparendo, scorrendo. Non si im-
para nulla piangendo. Piangere non ha niente a
che vedere con l’acquisizione di un sapere. Pian-
gere è prima di tutto distinguere, distinguere il
proprio corpo dalla propria anima. Le lacrime so-
no le parole del silenzio e non ha senso analiz-
zarle con la lama sottile e tagliente della ragione.
Non si possono se non accogliere nella loro leg-
gerezza e nella loro luminosa inconsistenza. Per
darci la loro luce, per darci la loro leggerezza, per
offrirci il loro silenzio, si sono affidate all’oscuri-
tà, si sono sottomesse alla gravità, si sono date
ai sospiri. Non c’è luminosità senza chiaroscuro,
non c’è pesantezza senza ‘melodioso silenzio’.
Come noi si sono esposte all’incarnazione e al-
la beatitudine. Tra carne e cielo. Trasparente oriz-
zonte. Parola incarnata, la lacrima dunque non è
mai un argomento, tutt’al più una prova. Ha que-
sto di paradossale: più è discreta più significa, e
più sfiora, più ci tocca nel profondo. Stranamen-
te silenziosa, chiaramente visibile, risolutamente
sospesa, è una scrittura che esiste solo nelle sue
cancellature. Ai turbamenti della memoria sono
legate le intermittenze del cuore”. Quest’ultima è
una citazione di Proust ed è il titolo che Eugenio
Borgna ha scelto per il suo libro. Le intermitten-
ze del cuore sono soprassalti straordinari che ci
riportano improvvisamente a impressioni susci-
tate da eventi, cose o persone: è il territorio del-
le emozioni e dei sentimenti che contiene il sen-
so stesso della nostra umanità. Eugenio Borgna
è una figura schiva, timida, un uomo di più di ot-
tant’anni che è stato primario dei servizi psichia-
trici dell’ospedale di Novara e che prima della
legge Basaglia era il direttore del locale manico-
mio. Il libro è un viaggio bellissimo attraverso gli
spazi della grande letteratura e molto meno in
quello delle conoscenze mediche; si incontrano
emozioni e non grigi cataloghi di sintomi. Non ci
sono i resoconti di casi clinici anonimi e noiosi, di
solito descritti con totale mancanza di pathos e
linguaggi poverissimi. Qui il dolore di vivere as-
sume volti indimenticabili: è attraverso l’epiles-
sia di Dostoevskij, la malinconia di Antonia Pozzi
(“Ho paura, e non so di che: non di quello che mi
viene incontro, no, perché in quello spero e con-
fido. Del tempo ho paura, del tempo che fugge
così in fretta. Fugge? No, non fugge, e nemme-
no vola: scivola, dilegua, scompare, come la rena
che dal pugno chiuso filtra giù attraverso le dita,
e non lascia sul palmo che un senso spiacevole
di vuoto. Ma, come della rena restano, nelle ru-
ghe della pelle, dei granelli sparsi, così anche del
tempo che passa resta a noi la traccia”), le ango-
sce psicotiche di Sylvia Plath che possiamo intra-
dell’ira è il presente dilatato, e deformato, in slan-
ci di aggressività, il tempo dell’ansia è il futuro.
Da sempre molto si è pensato e si è scritto sul-
la condizione della felicità, ma non sull’immedia-
tezza e sull’intemporalità della gioia che brucia
in un istante. Scriveva in una lettera Rilke (è una
delle innumerevoli citazioni contenute nel libro):
“La felicità ha il suo contrario nell’infelicità, la gio-
ia non ha contrario, per questo è il più puro dei
sentimenti”. Non basta conoscere, o almeno cer-
care di conoscere le emozioni: è necessario inter-
pretarle. Le emozioni dicono quello che si svolge
in noi, nella nostra psiche, nella nostra interiorità,
nella nostra anima, ma le emozioni sono anche
portatrici di conoscenza. “La gioia è forse l’emo-
zione più fragile e metafisica, che nasce quando
vuole e quando vuole scompare: come rugiada
del mattino. La gioia non è felicità e il tempo del-
la gioia è il tempo del presente agostiniano che
non ha passato e non ha futuro. La gioia si intra-
vede nel sorriso, certo, ma talora nel pianto. Nel-
le lacrime che possono essere irrorate di gioia, e
che si fanno ancora più luminose. La gioia riem-
pie di sé le esperienze mistiche di Blaise Pascal
e di Teresa d’Avila e si mescola con le loro lacri-
me. La gioia è un’emozione fuggitiva e inafferra-
bile, ma è un’emozione che consente talora, co-
me in Etty Hillesum (morta ad Auschwitz) di dare
un senso anche alla morte che si avvicina: la gio-
ia che questa straordinaria giovane donna olan-
dese (ebrea) ritrovava in uno spicchio di cielo e
in questo spicchio di cielo che aveva nel cuore,
vedeva libertà e bellezza (Ma cosa credete, che
non veda il filo spinato, non veda i forni crema-
tori, non veda il dominio della morte? Sì, ma ve-
do anche uno spicchio di cielo, e in questo spic-
chio di cielo che ho nel cuore io vedo libertà e
bellezza. Non ci credete? Invece è così!). La gioia
è la parola tematica dell’ultima sinfonia di Bee-
thoven: ma la gioia come emozione nella vita lu-
minosa e così radiosa si può oscurare: sommersa
nelle ombre del dolore e dell’angoscia che la de-
formano: senza cancellarne nondimeno ogni suo
elemento tematico”.
<
vedere gli abissi a volte atroci della vita psichica,
ma anche la sua ricchezza straordinaria. Lamalat-
tia diventa strumento di conoscenza, conoscen-
za degli orizzonti di significato che in essa possa-
no manifestarsi, tenendo conto che comunque
la sofferenza appartiene alla condizione umana.
Guai a noi se non abbiamo avuto nel corso del-
la vita esperienze di tristezza e d’ansia, e neppu-
re dobbiamo stupirci di essere segnati o anche
sommersi dall’angoscia, ma di esserlo troppo po-
co.In un’epoca che rimuove costantemente il do-
lore diventa un discorso difficile, forse inaccetta-
bile. Ma la verità non va sottaciuta – dice Borgna
– siamo tutti delle monadi a volte con le finestre
aperte, a volte con le finestre chiuse, il dolore è
un’esperienza a cui nessuno sfugge e non sem-
pre le nostre angosce sono patologiche. Il cuore
in fiamme o le fiamme del cuore sono emozioni
che fanno parte della vita: della vita di ogni gior-
no, della vita psicopatologica ma anche della vi-
ta sfolgorante della creatività: sonde che ci con-
sentono di intravedere le profondità dell’anima
ferita. ”Ascoltare non è prestare l’orecchio, è farsi
condurre dalla parola dell’altro là dove la paro-
la conduce. Se poi, invece della parola, c’è il si-
lenzio dell’altro, allora ci si fa guidare da quel si-
lenzio. Nel luogo indicato da quel silenzio è dato
reperire, per chi ha uno sguardo forte e osa guar-
dare in faccia il dolore, la verità avvertita dal no-
stro cuore e sepolta dalle nostre parole”. Le ango-
sce senza oggetto, il sentimento della nostalgia,
le ossessioni della colpa, le ferite dell’ansia, i rim-
pianti, le attese, le penombre della malinconia:
sono i temi di questo bellissimo libro. Le emozio-
ni ferite di Eugenio Borgna scavano sull’aspetto
temporale di ogni singola emozione, di ogni mo-
vimento dell’anima. Quando si parla di tempo
non ci si riferisce, ovviamente, al tempo dell’oro-
logio ma al tempo soggettivo, al tempo vissuto:
il tempo interiore della speranza è il futuro co-
me quello dell’attesa, il tempo interiore della no-
stalgia e della tristezza è il passato, benché con
incrinature diverse, il tempo della gioia è il pre-
sente così friabile e così inafferrabile, il tempo
tor
y
S
“Come eravamo”
L’amore ai tempi…dell’OUS!
Di Letizia Petrarca
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uando ilmondononavevaancoravistona-
scerenonsoloFacebookmaneppure il suo
ideatore, quando gli auguri di Buon Anno
si spedivano via posta e non con le e-mail, quando
gli sms e gli mms ce li sognavamo…beh, gli addet-
ti di scalo erano già entrati nell’era della globalizza-
zione! Come? Attraverso uno strumento di lavoro
misterioso per tanti perché fatto di codici, ma utilis-
simo e rimpianto ancora oggi dai più: Arco.
Arco altro non è che un sistema informatico con il
quale venivano gestite tutte le fasi operative in un
aeroporto, in tutti gli aeroporti poiché utilizzato da
tutti gli scali informatizzati. Attraverso Arco si ese-
guivano operazioni di biglietteria, prenotazioni e
vendite di biglietti, accettazioni passeggeri, gestio-
nedei bagagli smarriti, informazioni suorari di arrivi
e partenze e tanto altro ancora. Per agevolare le co-
municazioni operative tra colleghi esisteva anche
una funzione che permetteva di inviare i messag-
gi tra due computer. Eravamo negli anni ’80. Fun-
zionava più o meno così: ogni computer (ricordate
quei pc piccoli, brutti, con gli schermi quadrati, la
tastiera marrone ed i caratteri verdolini?) era con-
traddistinto da un indirizzo alfanumerico proprio.
Bastava digitare il comando OUS, poi MSG il testo
del messaggio ed il numero dell’indirizzo del termi-
nale del collega al quale si voleva scrivere qualcosa.
I colleghi ai quali ho chiestodi raccontare come ci si
scambiavanomessaggi ai tempi dell’OUS, li ho visti
letteralmente illuminarsi al ricordo.
Maria Sole:
“Era il 1990, io lavoravo a Fiumicino
come addetta e ricordo che scambiavo OUS con
mia cugina che lavorava in Alitalia allo scalo di Rio
de Janeiro! Credo sia stata proprio lei a farmi co-
noscere meglio questo sistema di messaggisti-
ca… e devo dire di averlo sfruttato in pieno… ho
addirittura organizzato un viaggio con gli OUS!
Attraverso una transazione si cercavano gli indi-
rizzi dei terminali non solo a Fiumicino, ma nel
mondo. Sono riuscita a contattare un collega che
lavorava in una sede distaccata di Alitalia a Salva-
dor de Bahia, meta del mio viaggio, e grazie agli
OUS che ci siamo scambiati ho pianificato tutto
nei minimi dettagli, dal volo all’hotel, all’itinera-
rio che avrei seguito una volta arrivata li. Ed era
un metodo molto discreto di comunicare, perché
la stessa pagina sulla quale venivano eseguite le
transazioni di accettazione poteva essere divisa a
metà e nella seconda parte scambiarsi i messaggi
… ed il passeggero neanche se ne accorgeva! Se
invece volevamo cercare un collega a Fiumicino,
sapendo che volo stava accettando bastava digi-
tare AC ed il numero di volo e si risaliva all’indiriz-
zo del computer che stava utilizzando”.
Stefano
: “Io che ho lavorato al check-in tra il
1983 e il 1984 ricordo a questo proposito uno
spiacevole incidente: un collega ‘pasticcione’ in-
vece di inviare il suo messaggio ad un collega
purtroppo sbagliò qualche cifra dell’indirizzo e
lo inviò al responsabile in turno… e nel messag-
gio il responsabile non veniva di certo elogiato!”
Serena:
“A Ciampino, dove ho lavorato io i primi
anni, l’operativo era meno frenetico di Fiumicino
e capitavano spesso momenti morti… le posta-
zioni andavano comunque presidiate ed i tele-
foni lasciati liberi per comunicazioni del respon-
sabile. Ci scambiavamo aneddoti sui passeggeri
e situazioni bizzarre capitate durante il turno…
insomma, gli OUS ci salvavano e ci facevano vo-
lare le otto ore lavorative!”
Laura:
“Io ho iniziato a lavorare in aeroporto nel
2004 e ARCO stava già perdendo la sua ‘supre-
mazia’… i cute (sistema informatico dedicato e
spesso differente da compagnia a compagnia)
ormai avevano preso piede… le transazioni che
usavamo noi alle informazioni erano davvero
poche… ma gli OUS li ricordo bene perché se
sentite dire in giro che ‘qualcuno con gli OUS ci
si è pure fidanzato’… io non posso che confer-
marlo pienamente!”
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